Il trasferimento collettivo, anche se connotato da ragioni produttive, può determinare condotta antisindacale, ove ricorrono determinati presupposti. Questo il contenuto sintetico della prima sentenza dell’anno emessa dalla Cassazione che offre l’occasione per riflettere sull’argomento della condotta antisindacale.
La sentenza n. 1/2020.
Il caso che è stato affrontato dalla Cassazione sezione Lavoro riguarda una nota casa automobilistica che decideva di trasferire 360 lavoratori di cui 77 fra invalidi e iscritti o rappresentanti sindacali del sindacato COBAS.
L’O.S. impugnava il trasferimento adducendo che esso determinava, di fatto, l’espulsione dal sito produttivo di tutti i lavoratori iscritti alla sigla o, comunque, della loro maggior parte. La Corte d’Appello di Napoli, tuttavia ne escludeva la asserita natura discriminatoria e/o illecita, ritenendo che il dato numerico, per quanto suggestivo, non fosse attendibile, poiché difettava di ogni termine di comparazione in riferimento alla consistenza ed entità dell’intero organico dello stabilimento all’epoca del trasferimento sia con riferimento ai lavoratori con patologie invalidanti, sia con riferimento al numero degli iscritti ad altre sigle sindacali operanti che al numero dei lavoratori trasferiti.
Per la Corte le ragioni del trasferimento collettivo, non potevano costituire un intento antisindacale o discriminatorio, ma corrispondevano ad una esigenza comprovata di razionalizzazione del processo industriale e di ottimizzazione dell’organizzazione aziendale. Peraltro, la scelta era stata ispirata ad un criterio “produttivistico”, essendo stato richiesto ai singoli capireparto quali lavoratori fossero da assegnare all’Area Logistica ed essendo stati questi indicati in base a skill professionali ed attitudinali, il che non consentiva al giudice di valutare il merito della scelta effettuata, residuando lo spazio solo per verificare l’effettività delle ragioni addotte a sostegno dell’esercizio dello ius variandi.
Secondo i Giudici d’appello, poi, il trasferimento non aveva neanche impedito ai lavoratori trasferiti di svolgere attività sindacale, poiché i dipendenti trasferiti potevano svolgere le prerogative sindacali attraverso la messa a disposizione di navette per consentirne lo spostamento e per la partecipazione alle assemblee presso il polo produttivo di prima adibizione, con godimento di tutti i diritti di elettorato attivo e passivo, senza che nessun discredito all’immagine fosse derivato sotto ogni profilo all’O. S..
La società, infine, aveva disposto il trasferimento seguendo la specifica procedura prevista dal CCNL, con la conseguenza che da tale azione si era dimostrata anche l’assolvimento degli obblighi informativi previsti da contratto e la conseguente assenza di antisindacalità della condotta.
Il sindacato decideva di ricorrere per Cassazione e, richiamate le norme dello Statuto dei Lavoratori e dei D.Lgs. nn. 215 e 216/2003, riferite alle condotte datoriali discriminatorie e ritorsive, attuative delle direttiva CE 2000/78 in materia di contrasto delle discriminazioni sul lavoro, rilevava come la società, nei precedenti gradi di giudizio, anche alla luce dei dati statistici non contestati, non avesse dimostrato l’assenza di profili di antisindacalità nella propria condotta, coì non assolvendo l’onere probatorio posto a suo carico dalla legge; deduceva, inoltre, che l’azione della società aveva determinato che il sindacato presso il sito produttivo interessato dal trasferimento aveva perso gran parte degli iscritti che davano disdetta temendo di esser trasferiti alla prossima occasione.
Il supremo Collegio, investito della vicenda, dapprima ha chiarito che la nozione di discriminazione sia diretta che indiretta è stabilita dall’art. 2 del d. Igs. 216/2003, che definisce:
- la prima come riferita alle ipotesi in cui “per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga“;
- la seconda con riferimento ai casi in cui “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone“.
Pertanto con un’ interpretazione delle norme coerente con la ratio della disciplina comunitaria a cui avevano dato attuazione, letta alla luce dei principi fondamentali del Trattato di Nizza, nel caso specifico può senz’altro ritenersi che la direttiva 2000/78/CE, tutelando le convinzioni personali avverso le discriminazioni, abbia dato ingresso nell’ordinamento comunitario al formale riconoscimento (seppure nel solo ambito della regolazione dei rapporti di lavoro) della libertà ideologica il cui ampio contenuto materiale può essere stabilito anche facendo riferimento alla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo. Se il legislatore comunitario avesse voluto comprendere nelle convinzioni personali solo quelle assimilabili al carattere religioso, non avrebbe avuto alcun bisogno di differenziare le ipotesi di discriminazione per motivi religiosi da quelle per convinzioni per motivi diversi.
Il contenuto dell’espressione “convinzioni personali” richiamato dall’art. 4 d.lgs. 216/03 non può perciò che essere interpretato nel contesto del sistema normativo speciale in cui è inserito, restando del tutto irrilevante che in altri testi normativi l’espressione “convinzioni personali” possa essere utilizzata come alternativa al concetto di opinioni politiche o sindacali. Sicuramente l’affiliazione sindacale rappresenta la professione pragmatica di una ideologia di natura diversa da quella religiosa, connotata da specifici motivi di appartenenza ad un organismo socialmente e politicamente qualificato a rappresentare opinioni, idee, credenze suscettibili di tutela in quanto oggetto di possibili atti discriminatori vietati.
Si chiarisce, poi, che “la prova dell’intento discriminatorio cede a carico di colui che lo denunzia“, precisando che l’onere può essere assolto attraverso il ricorso ad elementi presuntivi.
Con riferimento al caso esaminato si afferma che nell’ambito del giudizio antidiscriminatorio l’attore ha soltanto l’onere di fornire elementi di fatto, anche di carattere statistico, idonei a far presumere l’esistenza di una discriminazione, ma non è affatto previsto che i dati statistici debbano assurgere ad autonoma fonte di prova; conseguentemente, qualora il dato statistico fornito dimostri condizione di svantaggio per un gruppo di lavoratori iscritti ad un sindacato che è espressione delle loro convinzioni personali, è onere del datore di lavoro dimostrare che le scelte sono state invece effettuate secondo criteri oggettivi e non discriminatori (cfr. art. 8 Direttiva 2000/78/CE e Par 15).
Si afferma così che configura una “presunzione” di discriminazione indiretta l’accertamento che l’applicazione del criterio astrattamente neutro pregiudichi in percentuale molto più elevata i soggetti portatori in fattore di rischio rispetto ai non portatori. Solo laddove questo fatto sia accertato, spetta al datore di lavoro dimostrare il contrario (cfr. CGUE C226-98 Jorgensen, in materia di discriminazione per sesso). Laddove si afferma che il datore debba provare “il contrario”, si intende che questi deve dare la prova contraria della sussistenza dei fatti costitutivi (ad esempio, la disparità di trattamento non è collegata al criterio o l’impatto pregiudizievole del criterio è smentito sulla base di altri dati statistici, da cui risulti “meno che particolare”), sia la prova dei fatti impeditivi, di cui il datore è gravato in base alle regole generali.
La prova della sussistenza di cause di giustificazione non può qualificarsi come prova contraria dell’insussistenza di un fatto costitutivo della fattispecie: non smentisce l’impatto pregiudizievole del criterio, lo scrimina.
Più concretamente, si afferma rispetto al dato, rilevante ed incontrastato, secondo cui i trasferimenti hanno interessato il 6% degli addetti allo stabilimento, per quel che riguarda gli iscritti al sindacato ne sono stati fatti oggetto in misura dell’80%. Rispetto a tale dato non può ritenersi che un “criterio produttivistico”, risulti prova di assenza di condotta discriminatoria e/o antisindacale.
Per tali ragioni la Cassazione ha accolto il ricorso del Sindacato.
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