Lavoro agile e diritti del lavoratore nella fase di emergenza epidemiologica
02 Maggio 2020
Lavoro agile e diritti del lavoratore nella fase di emergenza epidemiologica
Prime pronunce giurisprudenziali e possibili soluzioni operative. Il DPCM dell’11 marzo 2020 raccomanda ai datori di lavoro il massimo utilizzo delle modalità di smart working per tutte quelle attività che possono essere espletate presso il domicilio del lavoratore o, comunque, con modalità a distanza. Il Governo ha, altresì, consentito la possibilità di ricorrere allo smart […]

Prime pronunce giurisprudenziali e possibili soluzioni operative.

Il DPCM dell’11 marzo 2020 raccomanda ai datori di lavoro il massimo utilizzo delle modalità di smart working per tutte quelle attività che possono essere espletate presso il domicilio del lavoratore o, comunque, con modalità a distanza. Il Governo ha, altresì, consentito la possibilità di ricorrere allo smart working attraverso procedure semplificate e senza l’accordo individuale prescritto dalla L. n. 81/2017.

Il successivo D.L. del 17 marzo 2020, n. 18 stabilisce, fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid-19, il “diritto” del lavoratore dipendente nelle condizioni di disabilità grave o che abbia nel proprio nucleo familiare un disabile grave a svolgere la prestazione in modalità agile, a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione.
La Sezione Lavoro del Tribunale di Bologna, nell’ambito di un procedimento cautelare promosso da una lavoratrice che si era vista negare dall’azienda l’autorizzazione allo smart working dalla stessa richiesto, ha applicato la suddetta nuova disciplina con provvedimento del 23 aprile 2020.

Più precisamente, il datore di lavoro, in relazione ad un gruppo di lavoratori appartenenti all’ “ufficio fiscale” da collocare in regime di smart working, aveva preferito alcuni dipendenti rispetto alla ricorrente, la quale aveva tempestivamente fatto domanda e sebbene la stessa risultasse:

  • convivente con familiare portatore di handicap grave ai sensi dell’art. 3, comma 3, legge n. 104/1992;
  • invalida al 60%.

Il Tribunale di Bologna, tenendo conto della sola condizione di gravità dell’handicap del familiare della ricorrente (art. 3, comma 3, legge n. 104/1992) ha ritenuto la sussistente il “diritto” della lavoratrice ad essere collocata in smart working in applicazione della disciplina prevista dall’art. 39, D.L. n. 18/2020.

La presenza nel nucleo familiare della lavoratrice di un soggetto portatore di handicap grave ha, quindi, consentito agevolmente al Giudice del Lavoro del Tribunale di Bologna di accertare la sussistenza del fumus boni iuris.

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Lo “stato di invalidità del 60%” dedotto dalla lavoratrice con il ricorso introduttivo del procedimento cautelare, avrebbe potuto rilevare solo in relazione alla disciplina prevista dal comma 2, art. 39, D.L. n. 18/2020, secondo cui il datore di lavoro è tenuto a dare “priorità” al personale “affetto da gravi e comprovate patologie con ridotte capacità lavorative” nell’accoglimento delle istanze di svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità agile.

Sotto tale profilo, si segnala l’ordinanza del 23 aprile 2020 del Tribunale di Grosseto, Sezione Lavoro. Con tale provvedimento è stato affermato il principio secondo cui il datore di lavoro, nell’ammettere i lavoratori allo smart working, è tenuto necessariamente a considerare “… la portata delle previsioni in tema di lavoro agile dettate dalla recente normativa d’urgenza e in particolare quella di cui all’art. 39, D.L. 18/2020”.

Nel suddetto procedimento cautelare, il lavoratore ha affermato di essere stato illegittimamente non ammesso al “lavoro agile”, nonostante tutti i colleghi del suo reparto lo fossero già stati, a fronte dell’attuale periodo di crisi sanitaria connessa ai noti problemi della diffusione del Covid-19. Ulteriormente, il medesimo lavoratore ha lamentato di aver diritto ad essere “preferito” nell’assegnazione alla modalità di lavoro agile, in quanto portatore di patologia da cui era derivato il riconoscimento di un’invalidità civile con riduzione della sua capacità lavorativa (art. 39, co. 2, D.L. 18/2020).

Conseguentemente, il Giudice del Lavoro del Tribunale di Grosseto, nell’applicare la disciplina prevista dal comma 2 dell’art. 39, che riconosce al lavoratore una “priorità” nell’accoglimento delle istanze di svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità agile nel caso risulti affetto (come nel caso di specie) “da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa” ha accolto la domanda e ordinato al datore di lavoro di “consentire al ricorrente lo svolgimento di mansioni in modalità lavoro agile”.

Peraltro, il Giudice del Lavoro ha segnalato che nell’ipotesi in cui il datore di lavoro sia nelle condizioni di applicare il lavoro agile, non può fare un ricorso “indiscriminato, ingiustificato o penalizzante” alle ferie, soprattutto nell’ipotesi in cui, come in questo caso, il lavoratore godeva di priorità nella scelta delle risorse da collocare in regime di smart working ai sensi art. 39, co. 2, D.L. 18/2020.

Il datore di lavoro, invece, si era limitato a prospettare al lavoratore il ricorso alle ferie “anticipate”, da computarsi su un monte ferie non ancora maturato, sebbene il lavoratore fosse affetto da patologia con ridotta capacità lavorativa e vi fossero concrete possibilità di ricorrere al lavoro agile.

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A questo punto ci si chiede come possa il datore di lavoro individuare i dipendenti “affetti da gravi e comprovate patologie con ridotte capacità lavorative” (presupposti individuati dal comma 2, dell’art. 39, D.L. n. 18/2020) e quindi riconoscere la dovuta “priorità”, senza comunque entrare in possesso di dati sensibili del lavoratore. Non tutti i lavoratori, invero, sono in grado, anche sotto il profilo strettamente documentale, di “comprovare” la suddetta condizione, senza indicare il tipo di patologia sofferta.

Il problema potrebbe essere risolto con un modello di autocertificazione redatto dallo stesso lavoratore che dichiara la sussistenza di “gravi e comprovate patologie con ridotte capacità lavorative”. Con tale strumento vi è, però, il rischio di consentire allo stesso lavoratore una sorta di valutazione delle proprie condizioni di salute e della ridotta capacità lavorativa che lo affliggerebbe. Allo stesso modo, non potrebbe mai essere fugato ogni dubbio sulla genuinità delle dichiarazioni rese dai lavoratori, nonostante le connesse responsabilità civili e penali.

Una soluzione operativa potrebbe essere individuata nel sottoporre il lavoratore, che ha segnalato preventivamente di essere affetto “da gravi e comprovate patologie con ridotte capacità lavorative” (senza specificazione delle suddette patologie, nel rispetto della disciplina vigente in tema di Privacy) a visita presso il Medico competente, il quale è in ogni caso tenuto – nello svolgimento dei propri compiti di sorveglianza sanitaria – a segnalare “situazioni di particolare fragilità e patologie attuali o pregresse dei dipendenti” (cfr. paragrafo 12 del Protocollo del 24.04.2020).

A seguito della visita medica e della verifica da parte del Medico competente dell’esistenza dei presupposti di cui al comma 2, art. 39, D.L. n. 18/2020, il datore di lavoro potrà riconoscere la “priorità” prescritta dalla legge al lavoratore richiedente la collocazione in smart working.

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